Friday, November 23, 2007

LA PELLE DELL'ORSO

Mentre leggevo La pelle dell'orso di Margherita D'Amico (Mondadori, pagine 144, e 13) mi sono ricordato di quel che scriveva Horkheimer, che cito a memoria: «L'umanità dovrebbe ricordarsi, nell'ultimo piano del grattacielo dove avesse la sua dimora, di tutti gli umiliati e dolenti piani sottostanti che reggono quel piano superiore. Nello scantinato più basso, nelle fondamenta di tutto l'edificio, che in alto offre un concerto di Mozart o una mostra di quadri di Rembrandt, abita la sofferenza dell'animale e cola il sangue del mattatoio».

In quello scantinato più basso ci costringe a guardare Margherita D'Amico con la sua fiera e dolente requisitoria fatta con dati e cifre alla mano, dati e cifre impressionanti. Le fattorie e gli allevamenti intensivi, i macelli, gli zoo, i parchi naturali, le riserve di caccia sono i luoghi dove più ignominioso si esercita il dominio dell'uomo e dove più grandi sono le torture inflitte agli animali. Una delle prime leggi morali che l'umanità dovrebbe rispettare per esser degna del primato che si arroga dovrebbe essere: «Non si può fare quel che si vuole di chi è completamente in nostro potere». È questo il principio fondamentale dei tanto proclamati diritti umani, e dovrebbe valere sia per gli uomini che per gli animali. E perciò un carceriere non può fare quello che vuole del proprio prigioniero, così come un cocchiere non può fare quello che vuole del proprio cavallo, gli esempi che si potrebbero fare sono infiniti.

Ognuno può immaginare quanto è vasto il campo di quello che assolutamente non si può fare e che invece con la massima indifferenza ogni giorno vien fatto. Margherita D'Amico, con la sua documentata denuncia ce lo mette sotto gli occhi, maltrattamenti fatti agli animali, anche quando non sono necessari e anzi inutili e controproducenti, fatti per pura crudeltà, per incuria e per bruttura morale, sono da lei descritti con meticolosa precisione e con l'obiettività di un reportage in queste pagine, ma in ogni pagina, in ogni riga si avverte il dolore che lega chi scrive al muto dolore animale, e si sente anche l'anelito verso una umanità migliore, un'umanità di cui non ci si debba vergognare. Perché è vero, vergogna si prova per tanta mancanza di compassione e tanta noncurante ferocia, e insieme con la vergogna uno sgomento ci prende, lo stesso sgomento che prova chi scrive anche quando vorrebbe non mostrarlo apertamente. Quello sgomento appare sin dalle prime pagine quando a Piazza Augusto Imperatore l'autrice vede un topo che è stato avvelenato, e lo raccoglie. «Ancora prima di chinarvi vedete che ha gli occhi rossi e gonfi come bolle d'acqua; anche dalla bocca esce sangue. Con un fazzoletto lo raccogliete. Ora lo tenete nel palmo... ne percepite il battito affannoso del cuore e lo sgomento vi coglie. Quel topo, deve aver mangiato il veleno, un anticoagulante pensato per causare emorragie interne ed esterne, fino alla morte, che sopraggiunge dopo parecchie ore (...) bisognerà pure che gli si pratichi un'eutanasia affinché si spenga senza inutili sofferenze. Ma siamo a metà estate e gli ambulatori non rispondono. Che fare? Per un istante vi sfiora perfino l'idea di colpirlo forte con un masso». Malgrado tutti i tentativi per alleviare la sua agonia il sorcio non se la caverà e morirà con indicibili sofferenze nella tana dove si è ritirato. Questo capita ogni giorno a milioni di altri topi «affinché proprio voi possiate mantenere una separazione netta, fisica e interiore, fra quanto sulla terra si trova sopra e quanto sta sotto. E proprio al sopraggiungere di quella consapevolezza, potrebbe accadere anche a voi di lacerarvi nell'intimo e provare un disperato dolore di cui il pianto non riesce a privarvi».

Ho voluto fare questa lunga citazione perché quella lacerazione nell'intimo, quel disperato dolore e quel pianto a me sembrano l'unica risposta e l'unica forma di resistenza all'orrore descritto in questo libro, e forse l'unico possibile riscatto dalla vergogna e dal senso oscuro di colpa che proviamo leggendolo. E anche l'unico modo per immaginare un'umanità diversa, capace attraverso la compassione per gli animali di andare oltre se stessa e riscattarsi dal suo peccato originale.

Raffaele La Capria
Fonte: www.corriere.it
16.11.07

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